19/03/2020
Anche il socio accomandante risponde delle sanzioni per infedele
dichiarazione
Ennesima prova negativa richiesta al contribuente
Ennesima prova negativa richiesta al contribuente
Il socio accomandante non è un puro socio di
capitali ma ha un dovere di verifica e di controllo dell’operato degli
amministratori (i soci accomandatari).
Questa è la conclusione cui è giunta la
giurisprudenza di merito della Commissione Tributaria Regionale della Toscana
(sentenza n. 1107 del 10 luglio 2019) facendo applicazione di un orientamento
recente della Suprema Corte di Cassazione.
Il caso che ha occupato i giudici toscani
originava da un accertamento emesso nei confronti di una società in accomandita
semplice, divenuto definitivo per adesione della stessa.
Gli accertamenti emessi per trasparenza, ex art. 5 TUIR, nei confronti dei soci
venivano impugnati contestando in particolare l’irrogazione ai soci
accomandanti, e quindi non amministratori, della sanzione per infedele dichiarazione
mancando l’elemento soggettivo del dolo e/o della colpa. Il comportamento era
infatti riferibile esclusivamente ai soci amministratori, ossia ai soci
accomandatari
Il
giudice di primo grado ha ritenuto che stante la posizione non gestoria dei
soci accomandanti non potesse ravvisarsi in capo a loro quel momento soggettivo
che deve presiedere - per le sanzioni - le infedeltà di dichiarazione che,
quindi, dovrebbero gravare solo su chi amministra la società (in concreto al
socio accomandatario).
Di diverso avviso il Giudice di merito di
secondo grado.
Richiamandosi ad un orientamento della
Suprema Corte, la CTR di Toscana ha statuito che “il
maggior reddito risultante dalla rettifica operata nei confronti di una società
di persone, ed imputato al socio ai fini II.DD. giusta l'art. 5 del D.p.r. n.
597 del 1973 (poi sostituito
dall'art. 5 del D.p.r. n.
917 del 1986), in proporzione
della relativa quota di partecipazione, comporta anche l'applicazione allo
stesso socio della sanzione per infedele dichiarazione prevista dall'art. 46 del D.p.r.
n. 600 del 1973, la cui irrogazione,
non fondandosi solo sull'elemento della volontarietà ma anche su quello della
colpevolezza, non si pone in contrasto con l'art. 5 del d.lgs. n.
472 del 1997, consistendo la
colpa, per i soci non amministratori, nell'omesso o insufficiente esercizio del
potere di controllo sullo svolgimento degli affari sociali e di consultazione
dei documenti contabili nonché del diritto ad ottenere il rendiconto
dell'attività sociale, e, per i soci
amministratori, nell'omesso o insufficiente esercizio dei poteri di gestione,
direzione e controllo dell'attività sociale.» (Cass. 13/04/2017, n.
9637; in senso
conforme: Cass. 28/06/2017, n.
16116 e da
ultimo Cass. 2018/20099)”.
I
Giudici di secondo grado hanno affermato quindi che, ragionando diversamente,
si finirebbe con l’assimilare il socio accomandante ad un puro socio di
capitali e ciò non trova, a loro dire, riscontro nella disciplina civilistica
della società in accomandita, che permane come società di persone con la
conseguente maggior incidenza dei poteri di verifica e controllo che anche l’accomandante
(per quanto escluso dall'amministrazione) ha sulla vita sociale e quindi sulla
sua possibilità di verifica e controllo.
Da ultimo il giudice
toscano onera il contribuente di un’ennesima probatio diabolica in materia tributaria: competerebbe al
contribuente infatti dimostrare che per positivi comportamenti altrui (ossia
dei soci accomandatari) gli è stato reso impossibile l'esercizio dei poteri di
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